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Barbara Garlaschelli: Davì (SenzaPatria)

Fonte: AgoraVox del 11 novembre 2010.
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Davì di Barbara Garlaschelli è un racconto diretto, schietto:
“Mi chiamo Davide. Ma mia madre mi chiamava Davì. Ora che se n’è andata non c’è più nessuno a chiamarmi così. Ho diciannove anni, ma a volte è come se me ne sentissi molti di meno. A volte, invece, è come se mi sentissi tutti gli anni del mondo. Credo capiti a tutti prima o poi. Il tempo è una cosa strana. Si dilata, si restringe, si asciuga, si riempie. Si riempie di tutta la nostra vita e anche di quella degli altri. La contiene. Un’enorme borsa della spesa in cui ficcare dentro desideri, sogni, fantasie. Bello.”
L’autrice sceglie d’iniziare a narrare attraverso la voce d’un protagonista giovane e curioso, fragile ed esposto. E la sceglie, questa voce, per dare all’intera narrazione quel ritmo sospeso tra l’incanto adolescenziale e le forti emozioni istintive. A tratti Davì pare quasi un bambino, tant’è candido e semplice il suo modo di vedere il mondo quanto ciò che racconta. Poi d’improvviso torna il diciannovenne solo, che dorme in un centro commerciale, e in biblioteca vive tra i mondi dei libri e Beatrice. Il narratore-protagonista non è diligente, non racconta cronologicamente la sua storia, si concede frequenti virate tra piani temporali e libere annotazioni. È un tipico adolescente indisciplinato con una vita faticosa, per strada, e l’immagine d’una famiglia che vorrebbe buttare via assieme all’unica fotografia che li ritrae tutti e tre assieme.
Ma Garlaschelli è regista esperto, sa quando è tempo di spiegare in altro modo, alternando la voce di Davì con un narratore in terza persona. Perché questa non è solo la storia di Davide, ci sono Beatrice, Nicla, la madre di Davide, il bambino incollato al vetro, la fioraia stanca, l’uomo lumaca, la donna senza sogni. Ci sono schegge di vite che l’autrice ha ascoltato poi impastato in una scrittura fresca e paziente, abile ad accompagnare il lettore tra angolazioni e corpi.
Sul finire si resta quasi dispiaciuti, che non ci sia altro, che una certa sospensione testimoni l’abbandono di vite che si iniziava a conoscere (forse capire). È probabilmente una narrazione che potrebbe trovare ulteriori respiri, pause e dilatazioni in una forma ‘romanzo’ per la naturale tendenza a soppesare le maree che si ritirano, a dare spessore ai personaggi attraverso abbandoni, interruzioni, poi ricerche, gesti e azioni a decomprimere emozioni forti.
Un piccolo libro che mette in ‘stand-by’ il tempo, strappa sorrisi e confonde, in un crescendo di arrivi e partenze fino alla dichiarazione finale verso un “scivolare via e lasciarsi trasportare” che i viaggiatori di oggi e domani dovrebbero riconoscere o imparare ad assecondare.